C’è chi, a suo tempo, era rimasto affascinato dal “mammo”, noi siamo rimasti affascinati dall’imprenditore: perenne studente, che salta da un manuale sulla fisica quantistica ai saggi di Massimo Recalcati, con un debole per l’ignoto e per lavori che ancora non esistono. Marco Benatti è quel tipo di persona che sa narrare (e narrarsi) magistralmente, un po’ perché la nostra sarà stata solo l’ultima delle tante interviste già rilasciate negli anni, e un po’ perché, in effetti, ci sa fare. Imprenditore veronese, classe 1953, Marco ha alle spalle una lunga lista di aziende e start-up avviate in diversi settori «perché, tendenzialmente, ogni dieci anni, mi piace cambiare» ci ha confessato.
Salito agli onori della cronaca qualche anno fa per aver deciso, al culmine della carriera, di restare a casa con i figli per accudirli, Benatti era stato definito dal Corriere della Sera il “mammo d’Italia” e tanto si era parlato dei suoi tre matrimoni - l’ultimo dei quali con l’attuale moglie, Ilaria - e della sua famiglia allargata, da cui sono nati dieci figli. Una lunga storia, personale e professionale, che è stato lui stesso a raccontarci in una delle ultime e anomale giornate estive di ottobre, nella “comfort zone” del giardino domestico: da quella sfida con il papà, che gli ha fatto racimolare i primi guadagni, passando per gli anni “milanesi” e per la vicenda legale con il magnate della pubblicità Martin Sorrell - ribattezzata dalla stampa inglese come “Benattigate”, che gli è costata anni di serenità e ben tre bypass - fino al ritorno nella sua Verona, che ha tante potenzialità ma pochi stimoli per concretizzarle, come ci ha detto. E ora? «Adesso mi occupo di intelligenza artificiale con una nuova azienda, ma sono soprattutto al servizio di Ilaria per dare una mano in casa con i nostri quattro bambini» ha spiegato sorridendo.
Marco, chi era da giovane?
Io sono il primo di sei fratelli e da giovane ero abbastanza scapestrato: mi piaceva divertirmi. Ho cominciato a lavorare per una scommessa con mio padre che mi diceva “Continui a divertirti, ma non sai che quando dovrai lavorare sarà dura”. Così mi ha sfidato: “Se da qua a fine anno hai guadagnato dei soldi veri, io te li raddoppio”. Avevo 20 anni e ho accettato la sfida: ho venduto la moto per comprarmi una macchina fotografica e alla fine ho vinto la sfida iniziando a fare il fotografo con alcuni amici in uno studio di Corso Porta Nuova. Però poi mi sono incastrato: non ho più smesso di lavorare (ride, ndr). È stata una bella lezione.
Quindi non era partito da subito con l’idea di fare impresa.
No. Però, una volta finito come fotografo, ho incontrato degli altri amici che avevano intenzione di aprire dei giornali, e tra questi c’erano Luigi Vinco e Marcello Rinaldi. Abbiamo fondato il mensile “Il Nuovo Veronese”, ma non avevamo ancora idea di cosa fosse un listino per le pubblicità, un conto economico o un'azienda, anche perché io avevo studiato architettura.
Ho imparato sbagliando.
Qual è il segreto di un imprenditore come lei?
Intuire il potenziale. Bisogna intuire che potenziale di sviluppo ha un certo progetto, perché è su quello che un imprenditore può immaginarsi delle opportunità. Io ho sempre lavorato sull'immaginazione e l'ho sempre fatto in tutti i cicli della mia vita.
Quanti ne ha contati di cicli?
Io ne ho contati sei. Il primo ciclo è stato quello dell’editoria locale negli anni ‘80, con la fondazione de “Il Nuovo Veronese”, di Novaradio Verona e di Telenuovo, che all’epoca aveva l’esclusiva sulle partite del Verona. Poi un giorno mi ha chiamato Alberto Bauli, che ho sempre considerato un mio tutor, e mi ha chiesto “tu che hai fatto i listini delle televisioni locali e sai cosa vale di più e cosa vale di meno…c'è un certo Berlusconi che ci sta vendendo di tutto. Mi aiuti a capire se compriamo bene o compriamo male?”. E mi ha coinvolto in alcune trattative. Così è nata l'idea di aprire i “centri media”, che è la seconda fase.
In un settore nuovo…
Sì, mediamente ogni dieci anni ho sempre cambiato lavoro. E anche in quel caso sono ripartito da qualcosa che non esisteva prima. Ho incominciato a fare la pianificazione, l'acquisto degli spazi pubblicitari su Verona, poi ho fatto un accordo con una società di Padova, poi una di Bologna, una di Milano e ho costruito quello che era “Medianetwork”, che è diventato il più grosso centro media italiano e il secondo in Europa, quotato in borsa a Londra con una fusione con una società che si chiama “CIA”. In dieci anni siamo arrivati ad amministrare duemila miliardi di lire.
E sono già passati vent’anni.
Sì e ho imparato a fare network, che mi è servito negli anni successivi. Nei primi anni 2000 ho iniziato un altro lavoro in un campo nuovo: internet. Così ho mollato tutto ed è nato Virgilio, che allora era il più grosso portale italiano. Poi l’ho venduto e mi sono trovato in mezzo alla “new economy”. Quindi ho costituito un primo fondo di investimenti privati e in due anni sono nate circa 35 società diverse, ritrovandomi quindi in un nuovo lavoro: quello dell’investitore. Da quell’esperienza, alla fine, mi era rimasta una società che avevamo quotato, “Inferentia”. E così mi venne a trovare Martin Sorrell, al quale avevo venduto il centro media, perché voleva che lo prendessi in mano trasferendomi a Londra. Io ho sempre rifiutato, finché non mi ha proposto un nuovo lavoro che non esisteva: diventare country manager del centro media in Italia. Così è nato questo esperimento bellissimo che è proseguito per circa cinque anni e di cui sono molto orgoglioso.
Poi il disastro…
Dieci anni di cause legali a Londra, arbitrati a Parigi…È stata un’altra fase della mia vita in cui mi sono arroccato in “Inferentia” - che poi è diventata “Fullsix” - ho fatto un’OPA e sono diventato socio di maggioranza. Anche Sorrell, però, era entrato come socio e ci è rimasto per dieci anni facendomi la guerra dentro la società. È stata una scuola di vita, anche se mi è costata tre bypass: ero da solo contro la rabbia del manager più pagato al mondo che pagava i migliori avvocati con i soldi dell’azienda. Ho perso tantissimi contatti e amicizie.
E come è finita?
Ho avuto una delle più grandi soddisfazioni: alla fine il “baronetto” è stato licenziato.
Quindi adesso arriva il sesto ciclo?
Esatto. Sopravvissuto alla “guerra”, ho guardato cosa c’era di nuovo in giro: blockchain, intelligenza artificiale e fisica quantistica.
E cosa c’entra la fisica quantistica?
È la materia che determinerà gran parte dello sviluppo della conoscenza umana e della tecnologia, tutto quello che riguarda l'intelligenza artificiale.
Perché proprio l’IA?
Perché mi piace lavorare sulle tecnologie trasformative, quelle che trasformano per davvero le abitudini delle persone. Il metaverso è una moda, mentre internet è stato davvero una svolta. L’intelligenza artificiale cambierà di sicuro le persone, i rapporti, il business. Ora sono amministratore delegato di una società che si chiama “Virtual Land”, che si occupa proprio di IA.
Che impatto avrà sul mondo della comunicazione, visto che lo conosce bene?
Può semplificare il lavoro, ma l’interpretazione della notizia è solo di chi scrive. Piuttosto deve essere posta una domanda all’editore: qual è il suo ruolo? Se si vuole essere editori, bisogna capire il potenziale dell’intelligenza artificiale, ma capire anche l’enorme importanza delle menti libere dei giornalisti, che sanno essere critici, che sanno esplorare e scoprire. Una macchina questo non lo sa fare.
Tirando le somme della sua carriera fino ad ora, c’è qualcosa di cui si pente?
Di essermi sempre fidato troppo delle persone senza avere senso critico.
E la guerra con Sorrell l’ha cambiata?
No, continuo a fidarmi (ride, ndr).
Parlando di giovani: è ancora possibile fare impresa per un ragazzo in Italia?
Certo, se uno vuole impegnarsi lo spazio c’è. Le opportunità sono sempre più grandi, perché sono internazionali. Non bisogna restare per forza in Italia. Però serve grinta.
Ora passiamo alla vita privata. Chi è Marco Benatti senza il vestito da imprenditore?
Ho sempre messo il cuore in tutte le cose che ho fatto, sempre con grande entusiasmo e ottimismo. Sono al terzo matrimonio, ho fatto tanti errori, tanti figli, ma non ho mai perso l'entusiasmo di voler crescere, di scoprire la bellezza nelle cose semplici.
In tante interviste si è parlato molto della sua famiglia allargata. È un tema che l’ha mai messa a disagio?
Sì, perché entriamo in una sfera privata di cui non mi piace parlare.
Come è riuscito a conciliare la carriera con la famiglia?
È questione di organizzazione, di mentalità, di senso delle priorità. C’è chi vive per il lavoro. Io ho sempre dedicato alla famiglia, ai figli e alla crescita individuale lo spazio giusto. Addirittura, quando sono uscito da Virgilio il "Corriere della Sera" mi mise in prima pagina e mi chiamò “Il mammo d’Italia” perché avevo deciso di staccare dal lavoro per sei mesi e dedicarmi ai miei figli.
Ma questo appellativo di “mammo” è calzante?
No, non lo è mai stato. Io sono un papà – e ora anche nonno - e ne sono felice. Il ruolo dei padri poi è cambiato molto negli anni. Oggi bisogna saper parlare ai figli…
Sta citando Recalcati?
Sì, li ho letti tutti i suoi libri (ride, ndr).
Pensando al passato, ha qualche rimpianto?
A pensarci mi viene da piangere... . Chi non ha rimpianti? Sono errori che si fanno nella vita. Gesti di superficialità o di arroganza. Ci sono persone che hanno sofferto a causa mia.
Ritorniamo allora al presente. Dove va quando deve “staccare”?
Nei momenti in cui sono stato single, sono sempre andato in alta quota. Sono stato in Nepal, in Ladakh ai piedi del K2… . Per me l’alta quota è il momento di “stacco” ed è bellissimo. Nella quotidianità questo è impossibile con i bambini, quindi quando mi devo prendere un momento per respirare mi metto a leggere
e a studiare.
Posto preferito?
Proprio il Ladakh. Avevo visitato un monastero che era la residenza estiva del Dalai Lama ed è un luogo che mi è rimasto nel cuore.
Lei è una persona avventurosa? Le piacciono gli sport estremi?
Ho fatto paracadutismo, free climbing, rafting. Ma questo, per me, non significa essere avventurosi.
E allora qual è la sua definizione di avventura?
Andare verso l'ignoto senza aver programmato nulla e senza avere la consapevolezza di quello che può servire. Io come imprenditore vado verso l'ignoto, però studio, mi preparo. L'avventura è una cosa diversa.
Che rapporto ha con sua moglie Ilaria?
Con lei ho un rapporto bellissimo. Mi basta strapparle un sorriso
e mi sento felice.
E Verona, invece, che ruolo gioca nella sua vita?
Io qui ho dei fratelli e c'era mia madre fino a due anni fa. Sono sempre stato legato questa città. So che adesso si parla di “Verona città metropolitana”. Verona se lo meriterebbe, peccato che la mentalità dei veronesi, salvo rarissime eccezioni, non è da città metropolitana, ma da borgo medievale. Siamo pieni di caste, di categorie. Ogni gruppo - gli industriali, i commercianti, gli albergatori - lavora per difendere quello che ha conquistato e questo è un macigno sullo sviluppo. Non abbiamo un grande albergo per grandi conferenze, non abbiamo un campus scolastico vero, abbiamo perso la banca, l’assicurazione, abbiamo perso il potere economico. Verona è sempre una gran bella città, ma nessuno ha il coraggio di fare e cambiare. E questa è la grande tristezza che mi porto nel cuore.