Lo scorso ottobre Gambero Rosso assegnava il premio vignaiola dell'anno per Vini d'Italia 2024 a Marinella Camerani, dell’azienda agricola Corte Sant’Alda a Mezzane di Sotto, identificandola come una delle massime interpreti dei vini storici della Valpolicella. Un riconoscimento che premia un modo di fare vino ma anche una storia personale fatta di scelte coraggiose e mai scontate.
Da dove parte la storia vinicola di Marinella Camerani?
Nasco ragioniera nell'azienda di famiglia, che produceva batterie per le macchine. Quando ho capito che lì avrei avuto solo ruoli marginali, me ne sono andata. Ho ristrutturato parte di questa proprietà, acquistata anni prima da mio padre, decisa a occuparmene. Era il 1983.
Quale fu la reazione della sua famiglia?
Mi presero per matta. Tenga presente che nell'84 è nata la mia prima figlia, nell'88 la seconda, nell’89 mi sono separata. L’idea che stessi qui da sola con due bimbe piccole non piaceva a nessuno, ma ero determinata nel provarci. Furono gli anni più difficili della mia vita, perché avevo il mondo contro, ma la Partita IVA che aprii il 1° gennaio 1986 è ancora la stessa di oggi, che so a memoria.
Che mondo aveva contro oltre a quello familiare?
Il mondo professionale sicuramente. La vallata di Mezzane era praticamente sconosciuta, immagini le difficoltà in ambito commerciale, il gestire un’azienda da sola.
Come ha iniziato a fare vino?
Il primo cliente è stato mio papà che, anche se malvolentieri, mi ha sempre aiutata. Io facevo il vino e lui lo comprava per sé e per i clienti. Difficile poi spiegare cos’è successo: non ero un'esperta di vino, ma ho avuto la fortuna di trovarmi in una zona magica. Penso di aver cominciato a fare vino buono ancora prima di sapere cosa fosse il vino buono.
Ora però lo saprà come si fa il vino buono?
Ho un'idea abbastanza semplice: con uva buona e un buon posto non è difficile fare vino buono. Mentre cercavo la mia strada sono andata a rompere le scatole a mezzo mondo, dalla famiglia Allegrini a Bruno Sartori, e poi mi sono trovata un enologo. Oggi posso confermare che non ci sono molte regole, ma serve intransigenza nel rispettarle: capire cosa puoi tirar fuori dalla tua terra, lavorare per ottenere il meglio, non cambiarlo per accontentare il mercato.
Lei riesce a rispettarle?
Sono convinta che ognuno, nella vita ma anche nel fare vino, debba essere sé stesso, riconoscibile. Ci sono dei vini non identitari fatti solo con intenti economici, che alla lunga rovinano l'immagine di una DOC o DOCG. Ogni produttore dà poi il suo tocco personale, ma l’importante è presentarsi sempre per ciò che si è.
Ricapitoliamo: identità, coerenza, trasparenza. Userebbe queste parole anche per descrivere i suoi vini?
I miei vini sono fortemente legati al territorio, non seguono le mode ma il mio gusto: mi piacciono i vini con una certa acidità, asciutti, non troppo corposi. Li definirei vini integri.
Lei ha iniziato a fare biodinamica intorno agli anni 2000, quando ancora pochi sapevano cosa fosse e quasi nessuno ne parlava. Perchè?
Fu per caso, quasi trent’anni fa. Usavo i lieviti selezionati e per alimentarli servivano sostanze nutritive. Un giorno, lo ricordo benissimo, apro il sacchetto delle sostanze nutritive e mi investe una ventata di odore nauseante, che mi ricorda il mangime dei pesci. Mi dico: “Perché devo mettere questa cosa che puzza nel mio mosto che profuma?”. Dopo un confronto con l’enologo ho deciso di iniziare a fermentare senza i lieviti selezionati. Oggi sono riuscita a eliminare i prodotti di sintesi in tutta l’azienda, grazie a tanto studio e all’incontro con Nicolas Joly.
Cosa le fece capire?
Che la natura in ogni istante ci dà dei segnali che non possiamo ignorare. Come si può fare vino senza vivere la terra?
Oggi il vino è per lei lavoro o passione?
In certi momenti è un lavoro pesante, in altri mi chiedo come posso chiamare lavoro qualcosa che mi piace così tanto.
Cosa le ha dato la forza in quei primi anni?
Avere la responsabilità di due bimbe piccole è stato determinante. Oggi ne ho tre, un compagno di cui sono molto innamorata, e sono felice per come le ho cresciute.
Lei è una ribelle?
Le dico solo che il ricordo della mia prima protesta risale alla prima elementare. La maestra voleva farmi disegnare un grappolo d’uva, non ero capace e mi rifiutai. A ricreazione mi fece tenere il foglio bianco attaccato alla schiena, lo strappai e dissi certe parole sentite chissà dove. Ho sempre avuto qualcosa da dire; prima pensavo fosse un limite, ora un pregio.
Oggi cosa la fa arrabbiare?
Le ingiustizie sociali; vorrei poter fare di più, vorrei cambiare qualcosa. Viviamo in un mondo privilegiato e a volte ho un po' di sensi di colpa per questo.
Qualcosa però l’ha fatto, la sua storia può essere d’esempio per altre donne. Si definisce una femminista?
Mi definisco tante cose, tra le quali una “femminista di sostanza”: voglio far vedere che si può fare, essere concreta e portare avanti il mio pensiero, anche quando non è facile.
Il premio del Gambero Rosso se lo aspettava?
Assolutamente no, non capivo perché avessero scelto me.
Ha trovato una risposta?
Partendo dalla certezza, perché li conosco, che ci siano molti vignaioli più bravi di me, un amico mi ha fatta riflettere: lavoro da quarant’anni nella stessa zona, facendo gli stessi vini che sono riconosciuti buoni, mantenendomi coerente, utilizzando la biodinamica da oltre vent’anni. In un momento storico nel quale la Valpolicella sta cercando una strada nuova, nonostante sia qui da così tanti anni, faccio parte di chi la sta percorrendo.