Meraviglioso. Potrebbe fermarsi e chiudersi tutto in questa parole il racconto in musica e parole di Vinicio Capossela, ieri sera al Teatro Romano per il Festival della Bellezza. Grande, grandissimo genio, Leonardo dei nostri giorni, per la sua poliedricità, la sua precisione scientifica e professionale, per la sua conoscenza, per la sua voglia di contaminare e contaminarsi, di sperimentare, essere, non apparire. La vera bellezza, quella che ha il compito di togliere il velo e farci vedere le cose come sono.
Il Carnevale degli animali e la danza macabra di Saint Saens vanno a braccetto con le ballate di De Andrè e le poesie maledette di François Villon, come scheletri nell’affresco di Clusone e uomini appena fuori da una taverna medioevale, si muovono le note in riti scaramantici, echi balcanici o irlandesi come muretti di pietra a contenere un verde intenso che scappa alla vista, un bestiario di animali come Bibbia con capoversi dipinti in musica e parole. E poi i versi di Michelangelo, poi di Rilke, e poi ancora dello struggente Keats, a bocca aperta come bimbi di fronte a meraviglia e stupore, guardando Capossela sul palco viene in mente Tomasi di Lampedusa: “Talvolta appaiono sulla terra degli esseri che riflettono nella loro esistenza una luce più che umana”. Bellezza.
Delle contaminazioni musicali del concerto di Capossela molti possono scrivere, dove in una stessa canzone i ritmi si scambiano e si impastano, contaminazione dei generi letterari e musicali, portando il Medioevo ed il Rinascimento nel contemporaneo, vera innovazione, come se il futuro fosse lì nel presente che si manifesta nelle sue sfaccettature, come Epifania. Ma è degli occhi che non tutti scriveranno, occhi che sono lo strumento della bellezza per condurre a sé.
Al primo brano gli occhi di Capossela sono rimasti chiusi per tutto il tempo, a cercare dentro parole e suoni che facevano muovere braccia, mani e gambe. Al secondo brano si sono lentamente schiusi, un filo per fare entrare con lentezza la realtà del momento senza abbandonare la concentrazione dell’animo. Al terzo brano gli occhi si sono aperti riflettendo la luce delle persone disposte ad arco ed hanno cominciato a brillare. Le canzoni e le ballate successive li hanno lentamente fatti spalancare, come assetati di colori e gioie da condividere, sempre sorridenti, luminosi brillavano come stelle, umidi di bellezza quella che da dentro si unisce al fuori e diventa arte, diventa verità. Sul palco la gioia di condividere e di goderne era tangibile, anche quella del violoncellista Mario Brunello, non c’era finzione.
La capacità di creare atmosfera, dove il tempo si sospende, quella epochè ereditata dai Greci come il teatro e le sue maschere, Persone; una magia medioevale che a un certo punto poteva accadere di tutto, anche che quel San Giorgio, cavaliere medioevale al di là del fiume impastato nel muro della chiesa di Sant’Anastasia venisse giù e attraversando il fiume raggiungesse Capossela per danzare straordinariamente sulla bellezza. Quel Medioevo che porta a braccetto sacro e profano. Stupore.
Lo storico del Medioevo, Johan Huizinga arriva idealmente in scorso nella mente: per comprendere lo spirito medioevale nella sua unità bisogna guardare alle forme del suo pensiero, non solo come appaiono nella fede e nella filosofia, ma come si manifestano nella saggezza della vita quotidiana nell’agire di tutti i giorni. E nella vita di tutti i giorni l’uomo del Medioevo pensa nelle stesse forme che usa per la Teologia, un idealismo architettonico che la filosofia chiamava Realismo: isolare ogni nozione e darle forma propria come entità a sé stante, coordinandole in un sistema gerarchico e rendendole visibili, costruendo templi e cattedrali, città, come il bambino che gioca con le costruzioni.
Così Capossela ci costruisce di volta in volta vere e proprie architetture musicali e letterarie per farci vedere attraverso suoni e parole la realtà, la verità del contemporaneo che stiamo vivendo.
Così prendono forma i miti, di canzone in canzone, Narciso e il suo specchio d’acqua che è inganno di bellezza, Ulisse e il suo viaggio per scoprire che è tornare a casa, Medusa che pietrifica con lo sguardo come rovescio della seduzione della bellezza, condurre a sé ma senza poterne godere. E quel bestiario medioevale che vede negli animali l’animo diverso degli uomini, l’orso, il lupo, il porco, ognuno portatore di un’immagine, di un carattere di una parte di noi nel quotidiano, facendo prendere forma a ciò che non vediamo o non vogliamo vedere.
Ma è la giraffa che resta nella retina e nei timpani, quella giovanissima di Imola scappata alcuni anni fa da un circo alla periferia della città e rincorsa lungo l’asfalto, il cemento, gli abitanti, tutti sgomenti e spaventati, il suo essere elegante, fuori luogo, poi abbattuta da una dose troppo forte di sedativo, si è accasciata, come povero Cristo, abbandonando gli uomini al proprio destino, alle proprie paure certe. Cercava la natura, quella giraffa, cercava di essere sé stessa, un istinto originario, non ha trovato alberi, savana, distese verdi, ma una paura collettiva quella straordinaria della bellezza e di chi non la sa riconoscere, la paura di ogni sua forma di libertà: ci siamo costruiti città come prigioni, come bugie, dove ogni uomo uccide chi ama, e se qualcuno scappa per cercare la propria natura non sappiamo riconoscere la Bellezza, ne abbiamo paura.
Scappiamo! Come giraffe a cercare bellezza, che sia acqua per dissetare quello di cui non sappiamo di avere sete, ciò che ieri sera Vinicio Capossela giocando ci ha fatto vedere, vedere la fortuna e la meraviglia di esserci. “Ovunque proteggi la grazia del tuo cuore”. E del nostro.