Uno dei più celebri poeti dialettali della provincia si racconta in esclusiva a Pantheon. La poesia, il suo percorso artistico, le amicizie e gli aneddoti. Una vita che lo ha portato inaspettatamente alla poesia e alla candidatura, non consapevole, al premio Nobel.
Nessuno forse se lo sarebbe aspetto. Nemmeno lui. Per anni e anni a scrivere “Alla gentile attenzione di…” e poi trovarsi davanti a un pubblico di spettatori allietati dai suoi versi. Forse è vero che c’è un “silenzio del poeta”, in cui si immagazzinano esperienze, emozioni, riflessioni, pensieri e soprattutto letture. E poi? Poi «la poesia viene fuori da sé». Si restituisce il mondo che porti dentro a qualcuno che lo possa condividere, suscitando in lui nuove emozioni, riflessioni, pensieri. «Quello che si legge non è più dell’autore, ma diventa tuo». Il cerchio allora non si chiude. Ma rimane aperto come una spirale, in continua espansione, legando le persone in un potenziale infinito.
Armando Lenotti è stato responsabile vendite. E oggi è poeta. O forse, appunto, lo è sempre stato. Oltretutto in una lingua che non è quella delle sue origini, trentine. Alla poesia dialettale si è avvicinato per curiosità, frequentando un corso nel 2004. Ma da sempre è stato lettore dei grandi poeti dialettali, a cominciare da quelli veronesi, come Barbarani, e veneti come Zanzotto. «I miei compagni di viaggio». Con loro «g’ò traversà i continenti» scrive nelle sue poesie lo stesso Lenotti.
Del loro poetare apprezza proprio la scelta della lingua, reale, colloquiale, dove risalta «l’essenzialità della parola». Dove il «il significato e il significante corrispondono». In breve: «poche parole e vere».
A ben vedere «il dialetto è la vera radice della letteratura italiana, a cominciare dai trovatori del Duecento della Scuola siciliana e dal Dolce Stil Novo». «Un tempo» spiega, «era la lingua della comunicazione. Oggi invece si parla italiano e si scrive in dialetto oppure lo si usa nella dimensione affettiva». Dunque «nasce prima la poesia e poi il dialetto, mentre una volta era il contrario».
Insiste Lenotti: «siamo nell’era del post-dialettale. Il dialetto oggi è un codice sopraletterario». Alla lingua vernacolare, quindi, non rimane che il veicolo della poesia. Una poesia che esprime un mondo che non esiste più. Per questo motivo, secondo il poeta, è difficile proporsi a un pubblico giovane, «dove si parla ormai solo italiano».
I suoi lettori, infatti, sono persone con esperienze che appartengono a un universo di modi, tradizioni e anche valori per lo più superati o poco sentiti dalle nuove generazioni. Ma proprio grazie a queste persone è cominciata la sua esperienza poetica. Un giorno, quando ancora il suo il repertorio era scarno, fu invitato al teatro Nicolis di Villafranca a leggere alcune sue poesie. «Alcine piacque a una signora, che si commosse», ricorda. «Ho capito allora che anche il mio linguaggio semplice e la forma erano efficaci. Così fui motivato a continuare a scrivere». E a far sorridere. Questo infatti è l’obiettivo di Lenotti, che nel sonetto ha trovato la forma adatta ai contenuti della sue poesie. «Il sonetto ha una finalità moraleggiante, educativa. È un racconto breve, con uno spazio limitato, in cui la rima non è facile da trovare». Insomma, «sono un po’ come le parole crociate. Un gioco a incastri, che ti obbliga ad avere musicalità».
Nel 2006 esce così la sua prima raccolta di poesie: Le morose vecie. Ben sessanta sonetti d’amore sui ricordi della giovinezza. Da quell’anno si muove sempre in coppia con il “suo avvocato”, Guariente Guarienti. Uno l’artista, l’altro il professore. Un’accoppiata vincente, che piace al pubblico «di giovani anziani» a cui leggono le poesie in giro per la provincia. «Ti tasi sempre e nega tutto, che ghe penso mì» dice sempre Guariente all’amico Armando. Sì, tanto da averlo candidato a sua insaputa al premio Nobel anche se Lenotti ci tiene a precisare: «ho fatto solo danni alla letteratura con le miei poesie!».
Che gli piaccia o no, non c’è dubbio che i critici gli riconoscono il carattere di novità nel panorama della poesia dialettale veronese. Non solo perché ha riportato in auge la donna, ma anche per essersi spinto oltre la “veronesità”. Essere uscito, cioè, dalla municipalità che ha sempre caratterizzato la poesia dialettale. «Dal bozzettismo tipico dell’Ottocento e del Novecento, dal senso decadente, dal provincialismo, dagli schemi manieristici». Se Barbarani disgiunto da Verona sarebbe incomprensibile, Lenotti segue l’evoluzione del mondo, proiettandosi verso l’esterno, verso l’universale e il globale. «La poesia dialettale non ha più una freccia rivolta indietro, al paese di origine, alla propria esperienza. Se vuole andare avanti deve rivolgersi al futuro». Tuttora, però, molta poesia veronese non riesce a staccarsi dalla tradizione, «da quei cliché ricorrenti della natura matrigna, del pianto continuo del cuore, del piangersi addosso». I veronesi «si prendono troppo sul serio». Quindi nonostante il grande fermento di incontri e di premi sulla poesia, sembra esserci un problema culturale: «oggi la poesia veronese non riesce a trovare qualcosa di nuovo da dire». Secondo Lenotti «bisogna leggere, assimilare letture. Essere sensibili alla vita».
Non basta quindi scrivere. «La poesia non deve essere la semplice liberazione dei propri problemi psicologici. A pensarci bene la poesia è qualcosa di molto semplice. Come scrive Armando, “no serve sempre el cor che se inamora, / la poesia nel mondo l’è za scrita”.