Storie del territorio | 06 febbraio 2019, 14:52

Quando in una goccia d’olio c’è un mare di ricordi

Quando in una goccia d’olio c’è un mare di ricordi

Parliamo di eccellenze italiane, anticipando Sol&Agrifood che si tiene sempre a Verona durante il Vinitaly. Nella pluripremiata azienda pugliese Intini fiorisce l’olio extravergine di oliva Cima di Mola: questa cultivar, maltrattata a causa di una non agevole raccolta dei frutti, è andata nel tempo a perdersi fino alla proposta di Intini, quella di sostenere l’unicità di questo frutto, tanto piccolo quanto grande nelle sue potenzialità.

Da qui nasce questo olio che alla memoria collettiva ricorda il buon “evo”, rotondeggiante, per palati sensibili. Grazie alla dedizione di Pietro Intini, la Cima di Mola torna alla ribalta con un olio di pregio, dotato di incredibili caratteristiche, e più sinceramente rappresentativo della cultivar e del territorio d’origine. Sapere gustare i prodotti della terra è accogliere la ricchezza e la diversità dell’eccellenza dell’Italia tutta, imparare a stare a tavola, è accoglienza.

Da tempo ormai credo in una cultura del territorio che è agricultura, ovunque mi giri la leggo la vedo la sento, ne parlo, ne scrivo. Una cultura che per noi è identità, quel Made in Italy che è carattere identitario, Rinascimento continuo che ci rende unici nel mondo, nella capacità di legare il territorio a noi stessi, al nostro modo di vivere, alla qualità della vita.

Così spesso mi ritrovo in situazioni dove senza più difese il territorio, il suo essere unico, memoria, amore, mi assale e mi lascia addosso quella forza, quella sicurezza di un pensiero che sempre più mette radici. Capita, che durante un viaggio di lavoro insieme ad un’imprenditrice veronese dell’olio, venga messa alla prova. Siamo in Puglia, zona di confine tra Martina Franca e Alberobello, due provincie, quella di Taranto e la Terra di Bari, la mia amica imprenditrice insiste per andare a visitare un’azienda che produce un olio particolare che ha vinto molti premi, ma l’olio è solo il risultato della tenacia dei due fratelli Pietro e Alessandro che proseguendo il mestiere di padre, nonno e bisnonno, portano avanti amore e sacrificio, rispetto per il proprio territorio.

E’ un pomeriggio d’inverno, tira un maestrale che come vento del Nord non si smentisce per il freddo che si porta dietro, è già buio pesto nonostante sia pomeriggio, arriviamo alle pendici di un paese che dei Trulli ha fatto ormai business. Distese di ulivi, un tronco non molto grande, e lo spazio ampio e funzionale di un frantoio.

Convenevoli, la mia amica ci presenta, Pietro un ragazzo sui quaranta, ci accoglie, a breve arriva il padre, un po’ di imbarazzo come tra estranei, ma la mia amica entra subito nell’obiettivo della visita. “Pietro, lei è una Professoressa di Marketing territoriale, vorrei che le raccontassi quello che fate e farle assaggiare il vostro olio quella cultivar “Cima di Mola” che solo voi avete”.

Così Pietro ci racconta dell’azienda, ci fa vedere i tanti premi, ci dice anche delle molte difficoltà, della scelta di non essere più frantoio per terzi, ma dell’investimento su se stessi, dell’essere soli in questa impresa, investire nell’agricoltura, nella terra non rende, ci fa visitare il frantoio, il magazzino. La mia amica imprenditrice dell’olio, seppur del Nord, anche lei è un’eccellenza di quel prodotto, ma si muove tanto orgogliosa di questi ragazzi che al Sud stanno portando avanti un prodotto di qualità, non teme la concorrenza, come è giusto che sia, perché ognuno è unico a sé. Lei lo ha capito e sostiene, incalza che io assaggi l’olio.

Sì, conosco bene sia l’olio della Puglia che quello del veronese, sono territori che mi appartengono, ma non sono un’esperta, mi sento un po’ in imbarazzo.

Pietro ci porta in una stanzetta ci fa sedere e tira fuori due bottiglie, in una veste molto bella ed elegante, raffinata. Versa in un bicchierino un primo olio, per me e per la mia amica, lei lo assaggia come degustatore esperto, stridendo i denti, io sento il profumo e poi un sorso in bocca lasciando che la lingua e il palato lo distribuiscano come nettare. “Sì, sì, caspita qui riconosco la Puglia, la sento tutta”, esordisco, e in effetti così è, mi sento quasi esperta, faccio i complimenti a Pietro che ci guarda. Lo stesso, versa in un secondo bicchierino il senso del nostro piccolo viaggio, l’olio della cultivar “Cima di Mola”, sono rimasti solo loro a coltivare questi ulivi in tutta la Puglia, prima tutti avevano questi alberi. Non faccio in tempo ad avvicinare il bicchierino al naso che un profumo intenso, mio, mi entra dentro e mi annebbia, quando lo porto alla bocca ed entra nel palato è la fine.

Le borse degli occhi mi si riempiono all’instante di un mare che sgorga senza avviso, lacrimoni incontenibili, un conato di memoria e nella mente le immagini velocissime di quando da bambina facevo merenda con pane e olio, mia nonna che ci chiama dal cortile di casa, una moviola che mi toglie ogni difesa, ogni muro e scoppio in un pianto a dirotto e singhiozzi come una bimba, cerco di scusarmi, ma non riesco nemmeno a parlare, sovrastata da un’emozione incontenibile ed inaspettata. Chi mi conosce non proprio mi direbbe capace di lasciarmi andare a tanto, così la mia amica, che mi vede così nuda, si commuove e comincia a piangere anche lei, capendo però cosa è successo, e il povero Pietro resta basito con la bottiglia di Cima di Mola in mano.

Sì, cosa è successo. Il potere della cultura del territorio.

Non sentivo quel sapore quel profumo da 40 anni e mi è esploso in bocca, nel cuore nella memoria, come amore, come legame con quella terra. Appartenenza, sentimento profondo, radice. Questa è identità, questo è il potere della Cultura del territorio che solo i prodotti di qualità coltivati con amore hanno: siamo noi, la nostra storia, il nostro Made in Italy, riconoscerci è inaspettata emozione.

Torno in Puglia una volta l’anno, non proprio ad Alberobello, mio Padre era di Ostuni. Un paese bellissimo, su un promontorio che riflette i colori della terra e rimanda l’odore del mare, ultimo lembo di Salento, di quella terra dei Messapi e dei Japigi, allevatori di cavalli (chissà il cognome), figli nomadi dell’Illiria, la penisola balcanica, il Montenegro, un popolo che si è esteso nella Dalmazia e nell’Istria; tante le assonanze tra Salento e Venezia Giulia. Poi magari con il Veneto. La storia non ha confini, come l’arte: la facciata del duomo di Ostuni è un romanico gotico molto particolare, simile alle facciate dello stesso periodo che si trovano in Friuli, nella terraferma veneziana, in Croazia; territori di pietra, aspri, contraddittori, gente di terra, non di mare, se non per casualità geografica. Non dimentichiamo i Normanni, di cui mio nonno aveva occhi, carnagione e capelli chiari, come me.

E’ il fascino del nostro paese, di quell’Italia fatta di gente diversa, di paesaggi diversi, che fin da bambina ho sempre sentito Una, di cui mi saziavo guardando fuori dal finestrino nei lunghi viaggi che ci portavano d’estate da nord a sud e ritorno. Un territorio la cui diversità mi appariva ricchezza, un Paese di cui sono sempre stata orgogliosa, innamorata, onorata di appartenervi. Una diversità che è accoglienza, ricchezza, che se educata nel palato diventa modo di essere.

Di mio padre, in quella goccia d’olio, mi è apparso il mitico ‘borsello’ sulla consolle accanto all’ingresso, lì dentro teneva, oltre a chiavi e documenti, una serie di carte e cartine, appunti scritti a mano, fogli, raccolti chissà perché, con logica solo sua, che mai buttava, “gli servivano”, diceva; abitudine, vezzo o esigenza che ha portato avanti nel tempo, tanto da riempire scatole e valigette.

Tra quelle carte, profanate poco dopo la sua improvvisa assenza, con imbarazzo e profonda emozione, mille appunti fatti a mano, grafia indecifrabile, la sua. Carte di fortuna, alcune con il marchio di qualche magazzino, o pubblicità; tra questi alcuni fogli parlavano della vita, altri di noi figlie, molti di mia madre, tutti della sua profonda inquietudine e della Terra. La sua.

Una frase, tra quelle lette accarezzandole, mi ha colpita, nel senso, distingueva le persone in ‘zerbini o tappeti volanti’, quelle capaci di fare diventare valore l’appartenere o di sfruttarlo in sterile arrivismo. Da allora cerco di essere un tappeto volante, e di portare con me quanti vogliano vedere la bellezza del nostro paese da una prospettiva diversa. Anche in una goccia d’olio.

Sono andata via abbracciando forte Pietro e ringraziandolo come fosse fratello, promettendo di raccontare di quanto oro abbiamo senza saperlo, rischiando con superficialità di perderlo.