Qualcuno sostiene che il viaggio è metafora di vita,
percorso di crescita culturale e di aperture mentali e intellettive. Un trip di
emozioni, sensazioni ed esperienze che stimolano ed esaltano. Ognuno sceglie
per sé il proprio viaggio, in parte perfetto e comodo, che si avvicina o
discosta completamente dall’immagine patinata di copertine che rimandano a
luoghi esotici da favola.
Viaggiare, visitare e fotografare o vagabondare, conoscere e
toccare? Attraverso gli occhi e l’esperienza di Giovanni Cobianchi, viaggiatore
vagabondo e fotografo affermato, cerchiamo di capire cosa spinge tanti giovani
ad affrontare nuove avventure ed esperienze forti ai “confini del mondo” per
ridefinire nuovamente la parola “viaggio”.
Nicaragua, Colombia, Perù, Bolivia, Panama, Mexico,
Guatemala, Belize, Honduras e ancora Kosovo, Albania, Serbia, Romania, Bulgaria,
Turkye, Iran, Iraq, Marocco, Kenya e tutta l’Europa: è questo l’elenco dei
Paesi da te visitati nel corso degli anni. Da dove nasce tutta questa passione
e cosa significa per te la parola “viaggio”?
Viaggio non vuole dire solo spostarsi: il viaggio è e deve
essere una scelta complessa, profonda e ricca. Un’esperienza piena di contenuti
ed emozioni. Viaggiare è conoscere, comprendere assaporare e capire, entrare in
contatto con tradizioni, con vissuti, colori e profumi. La mia storia nasce in
realtà da un viaggio parecchio scontato, un pacchetto “all inclusive” in
Brasile dopo il diploma, ma è da lì che tutto ha inizio. È da questa prima
avventura che ne sono seguite altre, alternate da studio e lavoro: la mia
laurea in Scienze dei Beni Culturali e vari corsi di fotografia. Ma la vera
esperienza si fa sul campo ed io l’ho fatta nei miei viaggi, grazie ai quali
ricerco e trovo sempre qualcosa.
Che cosa intendi?
Una delle esperienze che più mi porto nel cuore è il periodo
vissuto in Albania. Partito tramite un’associazione per eseguire un
monitoraggio sulla situazione in Kosovo all’indomani dell’indipendenza, mi sono
ritrovato a viaggiare verso l’Albania, affascinato dalle bellezze rurali di
quella terra. Per quattro mesi ho vissuto in un convento a Shkodër, per poi
ritrovarmi a mungere vacche e lavorare le terre di un contadino albanese in
piccolo villaggio dell’entroterra. Questa esperienza ha permesso di farmi
trovare ciò che cercavo in quel viaggio: conoscere le tante sfaccettature del
popolo albanese, diverso, ma fatto di gente semplice e genuina e con
un’ospitalità che non dimenticherò mai. È però grazie a questa, ed a tante
altre esperienze, che ho capito il segreto del viaggio: viaggiare è conoscere
ma per farlo bisogna capire il suo popolo attraverso gli occhi della gente,
entrando nelle loro case. Vivendogli accanto si arriva alla verità o qualche
indizio.
Hai mai avuto paura?
No. Il mio percorso è stato graduale e non mi sono mai
spinto oltre i miei limiti. Quando viaggi non devi dimostrare nulla a nessuno
se non: ascoltare te stesso e imparare a conoscerti. Gradualmente sono
cresciuto, ho imparato a osservare, capire e muovermi non mettendo mai le mie
paure davanti a me stesso. Perché sfidarmi?
Quali sono le cose che non mancano mai nel tuo zaino?
Viaggio sempre leggero, un piccolo zaino, la mia fotocamera,
un pc e una cartina, il resto lo acquisto al momento del bisogno.
La fotografia è una delle tue grandi passioni, oltre ad
essere fonte di sostentamento?
Sì, e grazie alle foto riesco a testimoniare ciò che altri
fanno scrivendo. L’obiettivo cattura storie non dette, attimi di vita, volti di
gioia e sofferenza. Grazie alle mie foto riesco a guadagnare qualcosa e questo
è un male. Ho collaborato con la rivista Goods, e il magazine sicurezza, geopolitica
e intelligence Theorema, con l’inserto mensile del quotidiano Libero V&V e
per alcuni famosi web site italiani e stranieri.
Prima di salutarci non puoi non raccontarci del tuo prossimo
viaggio?
Sto mettendo in piedi un progetto che mi sta particolarmente
a cuore e sono certo realizzerò. In quest’ultimo anno passato in Italia ho
avuto un’esperienza di collaborazione con “l’Istituto Don Calabria”, per il
quale m’interfacciavo come educatore culturale con genitori di figli immigrati.
Qui, fra i tanti ragazzi incontrati, ho avuto modo di conoscerne alcuni
arrivati in Italia soli e per “caso”. Partiti dall’Africa centrale all’età di
dodici anni si sono incamminati verso la Libia alla ricerca di un lavoro, una
vita, un sostentamento. Qui, come racconta la storia, chi più chi meno la
conosciamo tutti, sono stati costretti a spingersi a Tripoli e imbarcarsi su
navi fatiscenti per iniziare il loro viaggio della speranza. Voglio
ripercorrere, a ritroso, quelle stesse strade vie e sentieri percorsi da loro.
Dodicenni che per tre anni vagano nel mondo abbandonati a loro stessi. Partirò
da Lampedusa arrivando a Tripoli e da lì mi spingerò fino a Dakar, in Senegal,
passando per il Niger, Burkina Faso per andare alla ricerca delle loro famiglie
e alla scoperta della loro terra.