Storie di persone - 09 marzo 2024, 16:43

Una risata, Vostro Onore

Una risata, Vostro Onore

Quando abbiamo suonato il campanello dello studio legale in via Montecchi 8, era lì che ci stava aspettando. Guariente Guarienti, classe 1939, è uno degli avvocati più celebri di Verona non solo per la sua intensa carriera forense, ma anche per la sua “joie de vivre” e noi ne abbiamo avuto un assaggio. Siamo partiti dal principio: gli studi universitari, la scelta di diventare avvocato penalista, i casi più famosi e controversi. Eppure, non nascondiamo che, per gran parte della chiacchierata, ci siamo trovati a ridere e scherzare con un vero maestro della risata, capace di scrivere e inviare al giudice istruttore del Tribunale di Verona un’istanza in rima, cambiare la targa di una via del centro per prendere in giro la politica, scriversi il discorso funebre e andare in giro con le scarpe “scompagnè” (spaiate, ndr) per strappare una risata a chi incontrava. Guariente Guarienti è un avvocato, sì, ma ha l’animo del letterato, di un Cecco Angiolieri dei giorni nostri: poeta e scrittore prolifico dall’inesauribile vena ironica, che ci ha portati per qualche ora nella sua vita dove la noia è bandita (no, noi con le rime non ce la caviamo altrettanto bene).

Avvocato Guarienti, se dovesse presentarsi a una persona che non la conosce, come si presenterebbe?

Nome e cognome: Guariente Guarienti. E senza titoli: la trovo una cosa abbastanza volgare.

Perché è diventato avvocato?

Perché scartando tutte le facoltà scientifiche e ripiegando sulle facoltà umanistiche, mi sono reso conto che studiare lettere comportava il fatto di diventare insegnante e io non me la sentivo. Così sono arrivato alla facoltà di legge: mi sono laureato all’Università di Padova e ho cominciato a fare pratica nello studio di Angelo Sartori e Dino Dindo. Dopo qualche anno, sono diventato procuratore legale e ho aperto uno studio insieme ad altri due colleghi.

L’insegnante proprio non voleva farlo.

No, anche se poi l’ho fatto mentre ero all’Università, dato che a Vicenza cercavano insegnanti di lettere e non riuscivano a trovarli. Le dico: mi era piaciuto e forse avrei potuto fare l'insegnante, sarei stato abbastanza adatto.

Ha mai avuto ripensamenti sulla sua carriera?

No, assolutamente. Sono diventato avvocato perché mi piaceva ed è stata una scelta naturale continuare su quella strada, una volta intrapresa.

Lei è sempre stato un penalista, spesso protagonista di casi di rilevanza nazionale. Come fa a scindere la professione dalle emozioni umane?

Tanti mi hanno chiesto come ho fatto a difendere Pietro Maso, che aveva ucciso i genitori: io la trovo una cosa assolutamente normale. Io ho difeso tanta gente che ha commesso reati molto gravi, ma le dico, senza nessuna preoccupazione nel rapporto: l’imputato non ha solo bisogno di un avvocato, ma anche di un confidente che lo aiuti. Ho sempre trovato il mio lavoro appassionante e stimolante, anche se si parlava di difendere persone apparentemente indifendibili.

E, infatti, le è stato a volte attribuito l’appellativo di “avvocato dei mostri”. Le ha mai dato fastidio?

Mah, mi hanno anche definito “avvocato delle puttane” (ride, ndr). Io sono dell’idea che quanto più una persona ha commesso un reato grave, tanto più ha bisogno dell’avvocato. L’omicida – non il serial killer – è una persona che ha commesso un reato in condizioni particolari, eccezionali. La valutazione di chi svolge il mio mestiere è diversa da quella di chi legge la notizia sul giornale o la vede in televisione.

C’è qualcuno che lei farebbe fatica a difendere?

Sì, i cosiddetti colletti bianchi: persone di un certo prestigio sociale che commettono reati per arricchirsi ulteriormente. Se dovessi scegliere se difendere un truffatore o l’imputato di un brutale omicidio, accetterei quest’ultimo con più naturalezza.

Per il caso Ludwig lei è stato chiamato a rappresentare la parte civile. Ma se le avessero chiesto di diventare difensore degli imputati avrebbe accettato?

Ritengo di sì, perché un processo del genere coinvolge il penalista e gli fa tirare fuori il massimo possibile. Sarebbe stato anche interessante capire la personalità di questi ragazzi.

Il suo primo caso se lo ricorda?

Sì, ero alle primissime armi e mi avevano affidato una difesa d’ufficio. Si trattava di un ladro, Vittorio Pesacane, che aveva accumulato diversi reati. Ricordo che ero andato in giro a cercare le parti offese per vedere se accettavano un risarcimento danni per ritirare la denuncia. Alla fine, ero riuscito a eliminare tutti i reati, tranne quello che all’epoca era il più grave e non remissibile: la truffa. Il giudice, che di giorno in giorno si vedeva portare via le querele dalla scrivania, si è “vendicato” e ci ha dato una pena salata per la truffa. Ci ero proprio rimasto male.

Un caso che l’ha segnata?

Quello di un veronese che aveva ammazzato il figlio. Era stato portato allo sfinimento dal ragazzo, che si drogava ed era arrivato a portare la droga in casa. Alla fine gli aveva sparato. Lo considero uno dei miei successi professionali più grandi, perché questo signore se l’era cavata con otto anni. Ora è morto, sono andato anche al funerale, perché ero rimasto molto legato alla famiglia.

Ora è in pensione, ma spesso è in studio…

Negli ultimi tempi, essendo diventato vedovo, venire in studio dove c’è mio figlio e altri giovani colleghi, è un modo di vivere. Preferisco leggere qui in studio che da solo a casa.

La lettura è un hobby, ma anche la poesia. Giusto?

Sì, ma mi sento un critico letterario non professionista. Più che scriverle, me le mandano per avere un parere.

Eppure, ricordo un telegramma in rima che aveva mandato al Pubblico Ministero.

Sì, mi trovavo in vacanza e avevo scritto un’istanza di libertà provvisoria. Il PM mi aveva risposto dando un parere negativo, ma sempre in rima. Alla fine il giudice l’aveva accolta con un provvedimento non poetico (ride, ndr).

Lei è famoso per questo tipo di “boutade”. Per esempio quella di via Trota.

Sì, con un amico avevamo deciso di cambiare la targa di via Trota con “via Renzo Bossi, già via Trota”, in onore del “soprannome” del figlio di Umberto Bossi. La targa l’aveva fatta mio cognato: era in legno ma era identica a quella vera. Una cosa del genere l’avevo fatta anche in una traversa di via Mazzini, sopra il portone del palazzo dove ero nato e ho messo una targa che recitava una cosa del genere: “In questa casa, o meglio, in quella che c’era prima, il 10 settembre 1939 nacque Guariente Guarienti, non più celibe e non ancora celebre, che questa lapide pose un po’ per celia e un po’ per poterla rivedere mentre è ancora vivo».

E la storia delle scarpe spaiate come è andata?

(ride, ndr) Sono andato avanti per una decina di anni indossando una scarpa blu e una rossa. Semplicemente volevo fare un esperimento e divertirmi. Ogni tanto mi fermavano per strada e mi chiedevano “Sior, ‘sa è successo?” e io “Non lo so, si è dimesso il sindaco? È scoppiata la guerra?”, “No, no. ‘Sa è successo a lù!”, “A mi? Niente”, “Ma come s’è svejato stamattina? Ha le scarpe scompagnè!”, e allora facevo finta di accorgermi dell’errore: “Ostia, el g'ha reson! Mamma mia, guarda che testa che ho. Beh, quando torno a casa me le cambio" (ride, ndr).

Non c’è dubbio che lei si è sempre divertito.

Assolutamente. Avevo questa attitudine al gioco sin da ragazzino. Un giorno, appena finito il Maffei, sono salito sul campanile di Sant’Anastasia e ho lanciato sul tetto della scuola e sul cortile 450 petardi napoletani mentre c’erano alcuni ragazzi che stavano facendo ginnastica. Al pomeriggio sono arrivati a casa mia due agenti della Questura. Io ho confermato di essere stato sul campanile, ma solo per fare delle foto. Attività che è stata disturbata da qualche giovinastro che si era messo a lanciare petardi. Alla fine mi hanno lasciato andare perché non avevano prove. Un’altra volta, invece, insieme ad alcuni amici, tra cui Fedrigoni (figlio del proprietario delle cartiere) e Sartori (figlio di un importante avvocato), abbiamo provato a murare la porta di ingresso del Maffei. A un certo punto, messa la terza fila di mattoni, sono arrivati i poliziotti che ci hanno chiesto i documenti. Una volta accortisi che non eravamo delinquenti comuni, abbiamo iniziato a trattare. Ci hanno detto: “Noi dobbiamo passare qui davanti ogni mezz’ora e non possiamo farvi murare la porta anteriore. Murate quella posteriore”. E così facemmo, con l’autorizzazione della polizia. È stato divertentissimo.

So che anche per la sua morte ha già pronto il necrologio.

Sì: “Allegramente come visse, è morto Guariente Guarienti”.



Giorgia Preti

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