C’è un libro molto affascinante “Mura sensibili”, utile per comprendere il nostro rapporto con la “casa”, scritto durante la pandemia da Donatella Caprioglio, Psicologa dell’abitare che da anni si occupa di svelare le relazioni che abbiamo con gli spazi, privati e non, e l’importanza di progettarli con consapevolezza.
Ripartiamo dalla casa dunque, sia per capire chi siamo (e in questo condivido gli svelamenti della Caprioglio) sia per capire i rapporti malati o sbagliati che abbiamo oggi con la città, questo luogo collettivo che ha perso il suo senso originario.
Siamo ormai abituati ad affrontare i problemi prendendoli al di fuori del contesto, dimenticando sempre che ogni cosa sta dentro ad una visione più ampia, che sono le relazioni gli elementi chiave per comprendere prima di agire. E così purtroppo progettiamo il territorio, slegati dall’abitare, dal vivere, dal condividere, dal rispettare, dai doveri, annebbiati dai diritti più singolari possibili, quasi ad affermare una sete di giustizia che dimentica l’equità come equilibrio, bellezza dunque.
Così la giusta domanda oggi è capire che idea di casa abbiamo, in che casa viviamo, come ci relazioniamo con la nostra casa, i nostri spazi privati, come arrediamo, perché così siamo nei confronti della città e degli spazi pubblici, quello che chiediamo alla nostra casa, lo chiediamo alla città e se così non è dobbiamo capire le dinamiche, i perché.
Che ruolo e importanza hanno ad esempio, la cucina, luogo dell’apertura agli altri, dell’inclusione per eccellenza, o il bagno dove ci vediamo letteralmente allo specchio, il salotto è accogliente o solo ospitale, mette a disagio o no, abbiamo corridoi o è tutto aperto, vicino a cosa si trova la camera da letto, abbiamo delle piante, un terrazzo, un balcone, un ripostiglio, una cantina.
Si o no, ma soprattutto come e perché.
Seguendo le parole e le riflessioni della Caprioglio mi viene in mente che la casa dei miei nonni è quella che mi ha lasciato il segno da piccolissima e che adesso rivedo nella mia casa: in centro storico, in un paese del Sud, con muri pieni di luce e materiali caldi e porosi, la piazza ai piedi e la facciata della chiesa piena di statue di fronte, un vicolo con un negozio di generi alimentari che vendeva i legumi, come la farina e altro, a peso, in enormi sacchi di iuta, i biscotti sfusi come le caramelle, il rumore della gente o delle campane a scandire le ore della giornata; lo spazio pubblico un prolungamento della casa, ci si portava fuori le sedie per chiacchierare con vicini e passanti nelle sere d’estate. Un giardino a forma di “hortus conclusus” con un albero di limoni al centro e il rosmarino, la salvia, il basilico; sulla menta la sera si poggiavano le lucciole, una magia. Poi pomodori, melanzane, altro che chilometro zero, qualche passo e subito in pentola.
E poi quel pane, il profumo che arrivava dal forno vicino, come da quello di mia nonna in casa. Una casa che aveva una grande stanza accedendovi dalle scale e tutto intorno la cucina, le camere da letto, lo studio, il bagno. In questa stanza un enorme tavolo di legno stava al centro il luogo di pranzi e cene con tutta la famiglia e non solo. Tanti amici.
Così, mi rendo conto ho fatto che fosse, fino ad oggi inconsciamente, la mia casa. Così ho fatto si che gli altri che abitano nel palazzo si sentissero a casa entrando già dal portone, che il cortile, le scale, fossero già sensazione di casa, protezione, benessere, che fossimo comunità di persone, in qualche modo famiglia allargata su cui poter contare. Le persone danno valore alle case, non il prezzo, quello deve essere agevolato per far si che nuove famiglie vivano la città, a lungo, perché ci vuole tempo per riempire di “immateriale” i luoghi comuni, perché ci vuole tempo perché la storia di oggi riprenda il legame, il filo con il passato, e sia nuovo passato nel futuro. Per lasciare un segno di bene, di buono, di bello.
Abitare, soprattutto in centro storico, vuol dire creare comunità, coltivare abitanti che non vadano via dal centro, che si storicizzino: così il commercio, la cultura e l’accoglienza sono importanti per abitanti non occasionali, perché la città profumi di “casa”, di pane.
«Appoggia la mano e accarezza il muro, senti quello che ti dice - mi esortava il Professore di Restauro Paolo Torsello all’università, mio maestro -. Se è freddo, se è asciutto, se si sbriciola, se lascia passare i fantasmi di chi ci è stato, se ci è ostile o no per sommarci a chi prima di noi è stato qui». La storia è somma di storie, i muri sensibili raccontano a chi sa ascoltare.
Guardiamo i muri delle case, da fuori e da dentro, sono filtri tra noi e la città, tra la città e il territorio, tra le case, tra le persone, tra lo spazio urbanizzato ed il paesaggio, tra architettura e natura, siamo noi a decidere se sensibili o indifferenti, ne consegue la costruzione della comunità, l’idea dell’abitare, la qualità della vita, della città.