Storie del territorio | 25 maggio 2024, 10:54

ZTL: progettare ed educare è meglio di chiudere

ZTL: progettare ed educare è meglio di chiudere

Già solo la parola, l’azione, il verbo, “chiudere”, è sbagliato. Chiunque si occupi di valorizzazione territoriale sa che, oltre alla percezione negativa,  l’azione in sé non porta mai nulla di buono, in una strategia europea dove si cerca sempre più di “aprire”, di accogliere, di integrare, di sviluppare per una migliore qualità della vita. Ancora di più se l’obiettivo è l’ambiente, parola abusata: è lo spazio dove si vive, mettendo in relazione tutto ciò che ci sta intorno, sostenibile certo, ma da più punti di vista tra loro messi a sistema.

Oggi la grande sfida è un nuovo patto tra città e campagna, la relazione con la natura, di cui molte città italiane hanno già forma e seme, e nel patto tra città e campagna si sviluppa  la comunità, quel mercato che non è solo economia, ma socialità, conoscenza, scambio. Non può non venire in mente l’affresco di Ambrogio Lorenzetti nel palazzo Comunale di  Siena, quell’allegoria del Buono e del Cattivo governo si fonda sul sistema di relazione tra  città e campagna, di apertura, di flusso, di crescita e di scambio appunto, di cultura come  cura.

Certo è facile “chiudere”, meno lo è progettare e mettere in atto un’educazione territoriale, attivare servizi e infrastrutture, saper attendere, ereditare il presente consapevolmente; aprire vuol dire dover studiare il territorio per gestirne la complessità.

E per gestire la complessità la teoria non basta, le nozioni devono essere già acquisite come competenze, come esperienza, perché non s’improvvisa, perchè agire sul futuro  (questo è progettare) implica tenere sotto controllo una visione a lungo termine dove il  concetto di comunità viene prima di ogni cosa, è il senso di città come Civitas e come  Urbs, persone e cose.

Se non lavoriamo sulle persone, sull’accoglienza, sulla città come luogo, ovvero spazio definito da relazioni, ogni azione calata dall’alto è dannosa, ma soprattutto non creiamo  futuro, non produciamo cultura, ci sediamo su modelli già codificati, senza ascoltare e  capire.

Così per giustificare qualsiasi scelta sul territorio si fanno tante citazioni, si abusa di  modelli astratti e magari lontani dal carattere territoriale: bisogna capire il territorio, capire  la città e i suoi bisogni, il modello non è detto che funzioni a priori.

Ad esempio, è di moda la città dei 15 minuti, ecco questo modello nasce per città  metropolitane, come Parigi, è un modello ispirato alle nostre città italiane medie; diventa  così sciocco, superficiale inneggiare ad un modello che abbiamo inventato noi nei secoli  solo perché non sappiamo che è nostro e altri lo hanno fatto proprio e ce lo rivendono.

Così, ad esempio, chiudere completamente alle auto il centro storico di una città senza  alternative, vuol dire toglierle il senso di appartenenza. Sì, può sembrare esagerato, ma la gente si muove in auto e sulle abitudini bisogna agire, oltre a creare disagi infiniti a chi in quel luogo vive.

Sì perché si tratta del vivere, non di teoria, si tratta di essere una comunità che ha bisogni  ed esigenze, che ha gente anziana, o con difficoltà di vario genere, chiudere alle auto, vuol dire chiudere a tutte le persone che fanno parte della vita degli abitanti di quel luogo, vuol dire chiudere a quanti abitano altrove e non possono più sentirne l’appartenenza con  un semplice passaggio, liberi di goderne, vivendo non come fosse un museo, asettico. 

Responsabilizzare.

Molte sono le azioni concrete che andrebbero a migliorare la qualità della vita di un centro  storico: per esempio avere un vigile ogni tanto che controlli a che velocità vanno auto,  moto e monopattini, a quanto la circolazione in bici sia “creativa”, a quanto sia difficile  muoversi tra le folle di turisti con i sacchetti pesanti della spesa, al fatto che non ci sia un  pensiero per chi abita, una panchina, un ferramenta, un servizio di trasporto ad hoc, un car  sharing, un servizio taxi con costi idonei. Pensiamo a come era attrattivo il negozio di  Ferrario all’angolo di via Rosa, con tutte le polveri colorate in vetrina, attrattivo e utile per  gli abitanti. Ecco lavorare su questa contaminazione.

Insomma fare sentire agli abitanti del centro storico di Verona di non essere invisibili, ma  presenti, e con una gran voglia di difendere la città intera, ciò che appartiene. Come fecero un gruppo di abitanti della zona di santa Anastasia molti anni fa, capitanati  da Monsignor Giovanni Cappelletti Parroco della Basilica (chi lo ha conosciuto sa delle  sue gesta!) che si ripresero l’affresco di Pisanello dalle stanze di Palazzo Forti per  riportarlo a spalla in chiesa: “Ci appartiene deve tornare dove era perché tutti possano  vederlo”, fu la chiusura del racconto di un abitante anziano “Perché è simbolo della nostra  comunità”.

Ecco, lavoriamo su questo, prima di chiudere, sulle contaminazioni costruttive tra abitanti e  turisti, tra commercio e cultura, lavoriamo sul “Diritto alla città”, quello di partecipare alle  decisioni come quello, per tutti, di appropriarsi della città, usandola, con responsabilità: un  diritto alla vita urbana, all’abitazione, ai luoghi d’incontro e di scambio secondo tempi, ritmi  e modi necessari ai bisogni dei cittadini, questo diritto non è solo dei quartieri, ma anche  del centro storico, quartiere anch’esso di una città che è corpo unico.

Daniela Cavallo